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martedì 19 marzo 2024

DISINCANTATO — il Blog di Adolfo Santoro

Adolfo Santoro

Vivo all’Elba ed ho lavorato per più di 40 anni come psichiatra; dal 1991 al 2017 sono stato primario e dirigente di secondo livello. Dal 2017 sono in pensione e ho continuato a ricevere persone in crisi alla ricerca della propria autenticità. Ho tenuto numerosi gruppi ed ho preso in carico individualmente e con la famiglia persone anche con problematiche psicosomatiche (cancro, malattie autoimmuni, allergie, cefalee, ipertensione arteriosa, fibromialgia) o con problematiche nevrotiche o psicotiche. Da anni ascolto le persone in crisi gratuitamente perché ritengo che c’è un limite all’avidità.

​Lettera da un Amico sul caso Seung (1)

di Adolfo Santoro - sabato 13 maggio 2023 ore 08:00

Gianluca Paul Seung
Gianluca Paul Seung

Mi scrive un mio amico, che ha lavorato, come psichiatra, per anni nei Servizi territoriali e nei “repartini”, in risposta a quello che sto scrivendo sull’omicidio della Dott.ssa Capovani da parte del Sig. Seung.

“… Trovo giusta la tua analisi che evidenzia la frammentazione inter-istituzionale come fattore favorente la tragedia annunciata e fai non bene, ma benissimo, ad indicare le falle istituzionali che espongono gli operatori sanitari alla violenza. Insomma sottoscrivo tutte le tue riflessioni e non sto qui, noiosamente, a ripeterle. Voglio inviarti però qualche mia considerazione.

Innanzitutto mi chiedo: quale è stato il sillogismo psicotico che ha spinto l’assassino a scegliere la collega come vittima? C’è stato un sistema delirante che lo ha spinto ad uccidere o il movente è stato la cieca rabbia scagliata contro l’anello più debole del circuito istituzionale vissuto come persecutorio (una donna che sta per inforcare la bicicletta al termine del suo turno di lavoro)? E se fosse stata la sola rabbia da quale ideazione psicotica era alimentata (erotomania? Reazione al giudizio diagnostico? Reazione a eventi occorsi durante il ricovero in TSO? Altro?). Ovviamente sono domande legittime, ma non si hanno i dati per trovare risposte attendibili, forse gli inquirenti riusciranno a capire. Sicuramente il Sig. Seung, oltre che paranoico, è gravemente psicopatico, cioè soggetto senza un briciolo di coscienza morale e questo lo aveva anche certificato la Dr.ssa Capovani. E come accade che si strutturano le personalità antisociali? Quali dinamiche intra-familiari e più in generale socio-ambientali fanno sì che in un bambino in via di sviluppo non venga formarsi una coscienza morale che implica innanzitutto il rispetto per la vita propria e altrui?

Di fronte a persone con caratteristiche tipo Seung , come giustamente fai notare, negli operatori scatta la paura e si tenta di evitare l’incontro/scontro con le problematiche del soggetto. Se gli si parla chiaro e gli si dice “tu sei paranoico e antisociale”, nel migliore dei casi si litiga e ci si allontana reciprocamente, nel peggiore si innesca nel soggetto un delirio persecutorio che ha come oggetto della propria aggressività proiettata il medico giudicante, vissuto come maltrattante e comunque pericoloso, perché mette in crisi la propria visione di se stesso e del mondo, visione su cui si è strutturata la personalità paranoica e psicopatica.

Poi c’è il grosso problema della prevedibilità dell’atto criminoso. È giusto che soggetti con precedenti debbano essere sottoposti a una “specifica valutazione del rischio per comportamento violento”, ma fino a che punto si può arrivare a prevedere l’atto delittuoso? Certo si può affermare che un determinato tizio ha caratteristiche tali da giudicarlo come potenzialmente pericoloso, ma l’attuale legislazione consente di chiudere una persona in una REMS solo sulla base di una valutazione di una potenzialità criminogena? Nel caso Seung col senno di poi tutti diciamo che sarebbe stato giusto farlo, ma intanto non è stato fatto, e perché? Io credo che il problema non sia solo il dialogo tra istituzioni sorde e incapaci di intervenire, c’è anche un problema di leggi e di regole (mica una sola volta sono stato chiamato ad intervenire su pazienti paranoici ed i Carabinieri mi hanno detto che non potevano fare nulla senza che fosse stato commesso un reato), e allora? Il magistrato per intervenire ha bisogno del reato, le forze dell’ordine hanno bisogno del reato e lo psichiatra si viene spesso a trovare tra incudine e martello perché intanto c’è qualcuno (ad esempio un familiare, un vicino di casa, ecc.) che ha segnalato minacce da parte del presunto paziente e al tempo stesso magistrati e agenti delle forze dell’ordine hanno bisogno della concretezza (cioè del gesto criminoso: vedi Seung, solo quando la povera collega è stata trovata a terra con la testa fratturata e in un mare di sangue sono scattate le manette e il carcere). Si viene a creare un cortocircuito istituzionale che ricorda un po’ quello che favorisce i delitti di donne sottoposte a minacce da parte di partner gelosi e violenti (in questi casi i magistrati impongono la distanza e quindi il divieto di avvicinarsi al partner, ma spesso gli assassini se ne fregano e ammazzano lo stesso, e allora? Che si fa? Tutti questi tizi potenzialmente assassini si rinchiudono da qualche parte?). Insomma, caro Adolfo, la questione è molto complessa …. Al momento non vedo alternativa se non quella di continuare a convivere con il rischio e la complessità dell’agire psichiatrico, anche se su questo molto ci sarebbe da dire e da fare per migliorare la qualità ( e non solo la quantità) del lavoro dei Dipartimenti di Salute Mentale e ridurre di conseguenza i rischi di subire violenza…”.

Questa è la mia risposta, necessariamente concisa, e per questo necessariamente non esaustiva.

“Caro Amico, comincio dall’escalation tra contesto assistenziale in senso lato e assistito. Come ben sai, il primo rischio nell’assistenza ai casi gravi è la “scissione” all’interno dell’équipe curante, per cui ci sono i “buoni” (in questo caso la Magistratura, che glie ne ha perdonate troppe) e i “cattivi” (in questo caso la “salute mentale” che pretendeva di deresponsabilizzarsi del “caso” dirigendolo verso una “normale” reclusione). È un problema che genera confusione già in una normale famiglia: se un genitore dà quello che l’altro ha negato è già questa una scissione che mette un bambino in mezzo al conflitto genitoriale, che, in ultima analisi, è conflitto coniugale. Figuriamoci quale la scissione potere può dare ad un paziente, che nelle scissioni ci è vissuto fin dalla nascita e che, attraverso il potere dato dalla scissione delle istituzioni (famiglia, scuola etc), è riuscito a mantenere intatta l’onnipotenza infantile!

Ma ciò che caratterizza il caso Seung è l’escalation, nel corso degli anni, degli “acting out”, cioè dei “passaggi all’atto” attraverso un insieme di azioni aggressive e impulsive utilizzate per esprimere vissuti conflittuali e inesprimibili attraverso la parola e comunicabili solo attraverso l’agito: l’azione segue immediatamente all’impulso senza che siano prese in considerazione le possibili conseguenze del gesto. Questo può avvenire perché il soggetto avverte che il contesto intrude nella sua sfera più intima, quella dell’identità, e reagisce come se fosse una questione di sopravvivenza. Come un animale circondato, se non può fuggire aggredisce.

Diventa allora particolarmente importante la “pragmatica della comunicazione” di chi interviene: chi interviene deve badare non solo a quello che uno dice, ma anche al contesto ed alle conseguenze che la comunicazione verbale e non-verbale hanno su chi riceve la comunicazione.

Mi spiego meglio. Nella tua lettera, hai ben sintetizzato: “Se gli si parla chiaro e gli si dice “tu sei paranoico e antisociale”, nel migliore dei casi si litiga e ci si allontana reciprocamente, nel peggiore si innesca nel soggetto un delirio persecutorio che ha come oggetto della propria aggressività proiettata il medico giudicante vissuto come maltrattante e comunque pericoloso perché mette in crisi la propria visione di sé stesso e del mondo.”. Se chi fa la diagnosi non relativizza il proprio giudizio, allora la diagnosi può diventare un’arma, un boomerang, che può colpire sia chi è giudicato, sia chi giudica. E, nel caso Seung è successo proprio così: la redazione della diagnosi sul foglio di dimissione dal TSO del 2019 ha probabilmente attaccato l’identità psicotica di Seung (che riteneva di essere uno “sciamano”, uno che si è scomodato dal Paradiso per mettere le cose a posto sulla Terra). L’identità psicotica è pur sempre il risultato di un processo ossessivo, destinato a contenere la propria furia aggressiva: ritenersi uno “sciamano” permette di indossare una maschera che salvaguarda una vena di bontà e di altruismo. Quando Milton Erickson lavorava in Ospedale Psichiatrico, gli capitò di occuparsi di un paziente che girava per il reparto agghindato come Gesù; Erickson non disse “Tu rientri nei criteri diagnostici della schizofrenia”, ma “Mi hanno detto che sei un bravo falegname. Che ne dici se ci dai una mano nella nostra falegnameria?”. È un processo noto come “utilizzo del sintomo”.

L’effetto pragmatico della comunicazione della diagnosi nel caso dell’approccio biologico al disagio mentale dovrebbe essere immediato! Nel caso della depressione, ad esempio, la comunicazione è congrua, perché lo psichiatra dice esplicitamente al paziente: “Tu sei depresso, non hai colpa della tua depressione perché sei malato di una malattia che è scritta nei libri che ho studiato e che tu non puoi capire! Hai bisogno di una cura! Questa è la cura e la iniziamo subito.”. Il paziente depresso, che è masochisticamente oppresso dalle accuse proprie ed altrui di essere colpevole del suo male, ha un sollievo immediato, per cui può essere strutturata un’”alleanza terapeutica”. Non importa poi se l’uso degli psicofarmaci non modifica il tasso dei suicidi nei pazienti depressi: è il sollievo immediato ciò che conta.

Nel caso dello psicotico “buono”, invece, il masochismo è misto ad un elemento sadico, al di sotto del quale c’è la residua autostima del paziente, che comunica in questo modo: “La colpa non è mia, ma è di altri”. A questa affermazione lo psichiatra risponde implicitamente: “Parli così perché sei affetto da una malattia che tu non conosci, ma che io ho studiato. Col buono o con la forza la cura sono gli psicofarmaci. Ti addomesticheranno e la tua angoscia esistenziale non ti tormenterà più di tanto.”. Anche in questo caso la cura segue immediatamente alla diagnosi ed il paziente può accedere all’“alleanza terapeutica”. Non importa poi se i farmaci che assume contribuiranno ad accorciargli la vita.

Nel caso dello psicotico “cattivo” (cioè dello psicotico che mantiene una struttura difensiva ossessiva talmente efficace da mantenere il suo assunto di base “La colpa non è mia, ma è degli altri” e da nascondere più o meno bene l’implicito psicotico), le cose diventano ancora più complicate, perché il paziente è fortemente adeso alla sua componente sadico-ossessiva e lo psichiatra adatta la diagnosi alla maschera presentata dal paziente in quel preciso stadio della “malattia”: diagnostica il “disturbo di personalità” (come se la diagnosi dello psicotico “buono” o del disagio mentale in generale non avesse anche radici lontane, a seconda delle credenze nei geni o nell’infanzia). La conseguenza “pragmatica” della comunicazione della diagnosi diventa allora distruttiva, perché attacca direttamente la maschera dello psicotico senza proporre un rimedio immediato. Nel caso del Seung, la comunicazione della diagnosi ha avuto il valore di una sentenza: “Tu per noi sei dimesso e sei di competenza di un’altra istituzione: abbiamo fatto la diagnosi, non sei curabile (almeno con i farmaci, che è l’unica cura in cui crediamo). Il controllo della tua aggressività non può essere immediato, ma occorre aspettare che i Giudici si convincano della bontà di questa diagnosi.”. Ma, come ben sai, caro Amico, il “caso”, finché non ha un altro Soggetto Istituzionale che se ne faccia carico, rimane in carico alla Salute Mentale! E di questa verità qualcuno non sembra essersi reso ben conto; un articolo de La Nazione del 29 aprile scorso così recitava: “nemmeno un mese prima dell’aggressione alla dottoressa Barbara Capovani, era stata fatta richiesta di TSO su Gianluca Paul Seung, ma qualcosa si è ingolfato. Ad avanzarla era stata la questura di Lucca, dopo che il 35enne aveva seminato il caos negli uffici.”. Il TSO era l’unico modo, in attesa di altro, per contenere il comportamento aggressivo del Seung! E così, mentre la Salute Mentale era impegnata a discutere la validità della perizia psichiatrica ordinata dal Giudice (perizia che riconfermava la competenza della Salute Mentale), veniva anche ignorato quanto una vicina del paziente ha affermato in una recente intervista: “Una volta anche al suo zio, non so cosa gli ha fatto, mi sembra che lo picchiò quest’uomo di 80 anni; lui poverino gli portava anche da mangiare… qualcosa del genere; lo mandò in ospedale, non so quanto tempo…”. La paura verso il paziente (più o meno coerentemente espressa verso “chi di dovere”) era, d’altra parte, oltre che della Salute Mentale, soprattutto della famiglia: la madre aveva desistito dalla convivenza con lui e i “buoni consigli” dei familiari avevano ottenuto l’effetto di fargli dichiarare sui “social” che la famiglia “va estirpata”.

Mi fermo, al momento, qui in questa disamina, che continuerò la prossima settimana suggerendo quali potrebbero essere i sillogismi psicotici del Seung e come mi sarei comportato io, nel caso fossi stato un elemento non del problema, ma della soluzione. Cercherò di rispondere, insomma, ai tuoi numerosi quesiti. Lo so: corro il rischio di apparire saccente con i guai altrui, e la saccenza guasta! Ma, del resto, come afferma Fëdor Dostoevskij, “non c’è niente di più facile che condannare un malvagio, niente di più difficile che capirlo.”.

Nel frattempo, caro Amico, ricambio l’affetto e la stima che mi hai manifestato. Adolfo”

Adolfo Santoro

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