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martedì 19 marzo 2024

DISINCANTATO — il Blog di Adolfo Santoro

Adolfo Santoro

Vivo all’Elba ed ho lavorato per più di 40 anni come psichiatra; dal 1991 al 2017 sono stato primario e dirigente di secondo livello. Dal 2017 sono in pensione e ho continuato a ricevere persone in crisi alla ricerca della propria autenticità. Ho tenuto numerosi gruppi ed ho preso in carico individualmente e con la famiglia persone anche con problematiche psicosomatiche (cancro, malattie autoimmuni, allergie, cefalee, ipertensione arteriosa, fibromialgia) o con problematiche nevrotiche o psicotiche. Da anni ascolto le persone in crisi gratuitamente perché ritengo che c’è un limite all’avidità.

​Cronaca di una tragedia annunciata

di Adolfo Santoro - sabato 06 maggio 2023 ore 07:30

A dieci anni dall’omicidio di Paola Labriola, una psichiatra uccisa a Bari da un paziente con 57 coltellate, un altro omicidio di una psichiatra, Barbara Capovani, avvenuto a Pisa lo scorso 21 aprile, ha scosso l’opinione pubblica. La Dr.ssa Labriola fu uccisa durante una visita ad un paziente non abituale, un ex-tossicodipendente, che si era recato al Centro di Salute Mentale per chiedere soldi; la furia omicida sarebbe stata immediatamente successiva al rifiuto della Dottoressa a fornire tale sostegno. C’è però un elemento in più: gli operatori del CSM avevano chiesto la tutela di una guardia giurata all’ex Direttore Generale dell’ASL di Bari, che aveva rifiutato, a sua volta, di fornire tale opportunità per motivi economici e che è stato poi condannato, non ancora in via definitiva, alla pena di 3 anni e 6 mesi di reclusione.

Secondo dati di USA e Comunità Europea, per gli operatori della salute mentale, in particolare, il tasso di vittimizzazione violenta è di 20,5/1000, secondo solo a quello delle Forze dell'ordine (47,7/1000). Una ricerca italiana del 2021 (di Liliana Lorettu ed altri) constatava che gli operatori sanitari hanno un rischio 16 volte maggiore di subire violenze sul posto di lavoro rispetto ai lavoratori di altri settori e circa il 50% subisce violenze sul posto di lavoro nel corso della loro carriera. Nel periodo tra il 1988 e il 2019, 21 medici sono stati uccisi in Italia in relazione alla loro attività professionale (0,7 medici uccisi all’anno a fronte degli oltre 20.000 omicidi complessivi compiuti nello stesso periodo in Italia): in 11 casi l’omicida era un paziente del medico, in 6 casi era un parente del paziente, in 4 casi era un paziente al primo consulto. Il luogo dell’omicidio era in 10 casi un poliambulatorio, in 4 casi era per strada, in 3 casi l’abitazione del medico, in 3 casi l’ospedale o le sue immediate vicinanze, in 1 caso l’abitazione del paziente. In 12 casi l’autore del reato non era affetto da alcun disturbo mentale, mentre negli altri 9 casi lo era. Il movente dell’omicidio era la vendetta in 14 casi, preceduta da stalking in 6 casi. 12 omicidi erano avvenuti nel Sud/isole, 2 nel Centro-Italia, 6 nel Nord-Italia. In 10 casi era stata usata un’arma da fuoco, in 9 casi un coltello o un’arma tagliente, negli altri due casi un’arma contundente o il veleno in una bottiglia di vino regalata per Natale. 6 vittime erano psichiatri, 4 erano medici di medicina generale, 3 medici dell’assistenza primaria, 1 medico legale, 1 anatomopatologo, 1 chirurgo generale, 1 ginecologo, 1 oncologo e 1 neurochirurgo. In 3 casi all’omicidio seguiva il suicidio dell’autore del reato ed in 2 casi l’autore uccideva più di una persona. Questo studio si concludeva con sei raccomandazioni:

1. Gli ambulatori isolati sono ad alto rischio e trarrebbero vantaggio da sistemi di sorveglianza e sicurezza.

2. L’autore del reato può essere un paziente o un familiare del paziente in cerca di vendetta.

3. I sistemi di mediazione dei conflitti dovrebbero essere istituiti ad uso delle parti.

4. I medici vittime di stalking dovrebbero sempre contattare la polizia.

5. I pazienti psichiatrici, in particolare quelli con una storia di comportamento violento, uso di sostanze e scarsa aderenza al loro regime terapeutico, dovrebbero essere sottoposti a una specifica valutazione del rischio per comportamento violento.

6. I medici dovrebbero ricevere una formazione specifica sulle capacità di comunicazione efficaci e sulla gestione dei conflitti con i pazienti e i loro familiari, comprese le tecniche di comunicazione non violenta, le capacità di ascolto e l’identificazione e il riconoscimento dei conflitti.

Si aggiunga che, secondo una classifica redatta due anni fa, riferivano di aver subito aggressioni nel corso della loro vita lavorativa l’86% degli psichiatri, il 77% degli operatori del pronto soccorso-urgenza, il 60% dei chirurghi, il 54% dei medici della medicina territoriale ed il 40% dei medici di medicina e di rianimazione.

In altri Paesi la situazione è addirittura peggiore: dati degli USA e dati europei mostrano che il 48% degli episodi di violenza sul posto di lavoro non mortali si verifica nel settore sanitario, circa il 50% degli operatori sanitari subisce violenza sul posto di lavoro nel corso della propria carriera, gli operatori sanitari corrono un rischio 16 volte maggiore di subire violenze sul posto di lavoro rispetto ai lavoratori di altri settori (con un rischio maggiore per gli infermieri e per le lavoratrici, sia infermiere che dottoresse). Michael Knable, in uno studio del 2017, ha affermato che il tasso complessivo di atti violenti commessi da persone con gravi malattie mentali non è diverso dal tasso di atti violenti commessi dalla popolazione in generale, ma ha anche affermato di credere che il tasso di atti violenti commessi da persone con gravi malattie mentali e che non accettano cure sia più del doppio di quello della popolazione generale e che, quando si combinano abuso di sostanze e gravi malattie mentali, il tasso è circa sei volte maggiore rispetto alla popolazione generale; la media degli omicidi degli psichiatri, secondo la stima di Knable, era di 1 all’anno.

C’era dunque un rischio professionale per la Dottoressa Capovani, il cui omicidio ha causato un profondo e doloroso stupore, misto a rabbia, in tutti, e soprattutto in chi ha assistito all’escalation di violenza avvenuta nella “carriera” psichiatrica di Gianluca Paul Seung (e sottolineo la parola “escalation”, che significa – come avviene in tutte le guerre – un’invasione reciproca negli spazi di privacy).

Il cugino da parte di madre di Gianluca Paul Seung in un post televisivo così sintetizza il suo dolore e quello della sua famiglia: "Gianluca, mio cugino, non è uno stupido; per quel che mi riguarda, ha molto più cervello di me. È stato tutto sbagliato fin dall’inizio, quando ha cominciato ad avere questi problemi di testa. Ma non è stupido: con me ha sempre ragionato. Avrebbero dovuto curarlo meglio, invece di oscillare tra prigione e non prigione. Non è un cattivo ragazzo se viene preso con le buone maniere, e con me si è sempre comportato bene… Mi è dispiaciuto quando ho saputo la notizia; immaginavo che sarebbe andata a finire così. Dai e dai, doveva succedere. Si sapeva che sarebbe esplosa la bomba. Si sapeva da dieci anni. Io do la colpa a chi non è stato intorno a Gianluca; non meritava tutto ciò, così come non lo meritava la dottoressa che è stata uccisa. Mi dispiace per la sua morte, per i suoi tre figli, ma lo sbaglio non è tutto di Gianluca... Dovevano metterlo in qualche struttura e curarlo. Mi piange il cuore, mi dispiace dirlo, ma mia zia ha fatto tutto il possibile".

C’è stata nel “caso Seung” frammentazione dei rapporti interistituzionali (tra Salute Mentale, Tribunale e Forze dell’Ordine): invece di fornire un contesto di cura certo e protetto “fin dall’inizio” sollevando la madre da un carico di responsabilità genitoriale ormai esaurito, c’è stato un dialogo tra sordi. La confusione tra le istituzioni ha alternato misure restrittive punitive (fogli di via, una detenzione, arresti domiciliari, TSO ripetuti e una perizia) ad un goffo tentativo di incontrare il paziente in una videoriunione, a cui il paziente, ovviamente, non si è presentato. Questa immaturità interistituzionale, durata un decennio, ha evidentemente contribuito all’escalation dei comportamenti psicotici e nella produzione delirante, pubblicamente espressa su due suoi “canali face-book” e nelle varie “incursioni” che soleva fare nel Tribunale di Lucca e nei posti di polizia. A questa escalation ha contribuito in vario modo anche la paura che questo paziente incuteva in tutti gli operatori della Salute Mentale che avrebbero dovuto averlo in carico: ne conseguivano il rifiuto e l’evitamento della sofferenza del paziente, che, infine, ha avuto la meglio. La paura generalizzata degli operatori della Salute Mentale sarebbe dovuta essere oggetto del confronto tra Salute Mentale e Tribunale come elemento di rischio di agiti violenti: se non si poteva (o non si sapeva) costruire un “progetto terapeutico”, bisognava adottare urgenti misure di controllo del paziente!

Ma non è stato così. E in questo tragico contesto non è stata estranea l’erosione trentennale dei finanziamenti messi a disposizione della Sanità Pubblica e della Salute Mentale in particolare: nel 1999 la Conferenza Stato-Regioni aveva stabilito che il 5% del fondo sanitario regionale fosse destinato alla Salute Mentale, che però ora ne riceve solo il 3%. Ne è conseguita la diminuzione di personale (psichiatri, psicologi, educatori, assistenti sociali) con chiusura di molti servizi a fronte dell’aumento e della diversificazione dell’espressione del disturbo mentale, che è complicato dall’abuso diffuso di “droghe”, dalla turbolenza delle nuove etnie, dall’abbassamento dell’età di esordio, dall’aumento dei suicidi e dei tentati suicidi, dai fenomeni correlati al Covid. Ulteriori complicazioni sono stati i subappalti a privati nella gestione di pezzi dell’assistenza e la credibilità data ad iniziative tipo “Shaman”, in cui vengono riprodotte, in assenza di un adeguato controllo pubblico, la massificazione e la violenza manicomiale.

Il modello della prevenzione-cura-riabilitazione territoriale del disagio, prevista dalla visione di Basaglia, è stato messo in crisi, oltre che dalla mancanza di formazione adeguata degli operatori, dai tagli alla psichiatria; ma questo modello richiedeva un investimento in operatori (cioè nella creazione di posti di lavoro!). Il modello centrato sulla “cura” nel “repartino”, oltre a favorire l’alienazione degli assistiti, a sua volta non risponde a tutti i bisogni e richiede un investimento in nuove strutture; ma, per “ridurre i costi”, queste strutture sono nel “privato” e comportano “rette” comunque onerose.

In considerazione del fatto che le REMS (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) hanno pochi posti letto ed hanno grosse problematiche di organizzazione (dove e quando potrebbero essere allestite altre REMS?), qual è la soluzione che viene consigliata dagli esperti consultati dall’attuale governo? Strutturare dei “repartini” nei penitenziari italiani! E qui si cade dalla padella nella brace, perché la situazione dei penitenziari italiani è già disastrosa di per sé!

A fronte dell’ennesima aggressione avvenuta nel carcere di Porto Azzurro il 2 maggio scorso il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria ha scritto: "Il carcere di Porto Azzurro, ormai da tempo, vive una cronica carenza di personale di tutti i ruoli… Da aggiungere la fatiscenza della struttura che necessita di una ristrutturazione non più rinviabile.”. La nota del Sindacato aggiunge che il Ministero di Grazia e Giustizia ha promesso da mesi la dotazione di corsi di formazione e aggiornamento professionale e di nuovi strumenti di operatività, come le telecamere, atti a prevenire e a dissuadere la violenza carceraria. Ma alle promesse non sono seguiti fatti.

Un governo che non faccia politica con gli slogan, ma per risolvere i problemi, userebbe i fondi del PNRR non per sostituire i proiettili inviati in Ucraina (come la Comunità Europea sta suggerendo con la “Legge per il sostegno alla produzione di munizioni”), ma per investire nel lavoro e nella sicurezza del lavoro, anche nell’ambito della Sanità pubblica, nello specifico della Salute Mentale, nello specifico delle gravi condizioni delle carceri italiane.

Oltre ad interventi strutturali (ad esempio all’interno del “fatiscente” carcere di Porto Azzurro) e alla dotazione di adeguati strumenti, i punti 5 e 6 del su citato articolo ben delineano quello che c’è da migliorare nella relazione con l’assistito nei tre ambiti su citati (Sanità Pubblica, Salute Mentale, Istituti di pena): 5. … valutazione del rischio per comportamento violento, 6. … formazione specifica sulle capacità di comunicazione efficaci e sulla gestione dei conflitti …, comprese le tecniche di comunicazione non violenta, le capacità di ascolto e l’identificazione e il riconoscimento dei conflitti.

Ma si sa: la Pubblica Amministrazione non sa spendere i soldi, anche quando li ha a disposizione, com’è nel caso del PNRR. O per lo meno sa spenderli solo per soddisfare i bisogni della NATO.

Viene allora il dubbio! Ma la tragedia annunciata non è quella dell’Italietta? Non è quella della piccola Europa? Non è quella del naufragio del vivere in pace nel mondo? Non è quella del morire per il riscaldamento globale?

Adolfo Santoro

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