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martedì 19 marzo 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

Le stelle del jazz

di Marco Celati - giovedì 09 febbraio 2023 ore 08:00

Paolo Conte - Sotto le stelle del jazz

La notte è scesa sui palazzi avvolti dal buio e dal silenzio. Che detta così sembra un incipit scontato, tipo “era una notte buia e tempestosa”, quello con cui Snoopy si cimenta alla macchina da scrivere. No, la notte era solo fredda. Siderale, anche nel senso delle stelle. Anch’io sto scrivendo. Curvo sul tablet, seguo a caso il groviglio delle parole, cercando un capo che si addipani o si svolga in una trama. Scrivere è un piacere faticoso. In sottofondo Paolo Conte, “Sotto le Stelle del Jazz”: Mi sembra appropriato, ancorché distraente. Una sonnolenza vigliacca mi prende. Pausa! M’intabarro nel parka ed esco sul terrazzino, la notte lava la mente, dicono i poeti che l’hanno ben chiara. A me serve solo a svegliarmi un po’. Vedo i palazzi nell’oscurità, qualche finestra ancora accesa, l’alone dei radi lampioni, lo stellato. Non dirò della luna. Non bastano questo pezzo di cielo, questo angolo di case. Stringono il cuore, e la vita spesso è già angusta di suo. Le cose sono ferme e non raccontano niente. Così esco sul pianerottolo, prendo l’ascensore e salgo all’ultimo piano, sulla grande terrazza che fa da copertura al palazzo, un condominio popolare, con qualche pretesa disattesa. Mi somiglia.

La città si estende tutto intorno, punteggiata di luci, qualche auto ancora corre sulla provinciale, latra un cane, il cielo notturno è terso per il gelo. Nevicherà, forse. E poi a nord, più bassa del previsto, la intravedo, credo di vederla: un’offuscata luminescenza grigio verde, un punto. Non può essere, ma forse deve essere proprio lei: la cometa che passò l'ultima volta da noi cinquantamila anni fa, quando ancora sulla Terra c’erano i Neanderthal, con i nostri progenitori Sapiens. E così infatti l’hanno soprannominata: la Cometa di Neanderthal, altrimenti si chiamerebbe C/2022 E3 ZTF che è parecchio più palloso a dirsi e, ancora prima di perdersi per sempre nell’abisso del Cosmo come avverrà, si sarebbe già persa nel buio recondito della nostra memoria. Non tornerà più, forse finirà nell’Universo infinito. I Neanderthal la videro passare e chissà che auspici ne trassero, positivi o negativi, chissà se già usava divinare gli astri. Forse ricorsero ai primi gesti apotropaici. Le comete -a parte Gesù, che chissà se allora non fu una congiunzione astrale- non hanno avuto sempre fama di portar bene.

Poveri Neanderthal, rinvenuti in Germania, dove si generò il Nazismo, vicino Düsseldorf, che fu poi famosa nel cinema per un terribile Mostro, e chissà se fra queste cose c’è una qualche relazione! Ebbero a che fare con i cugini Homo Sapiens Sapiens. Due volte Sapiens, che presuntuosi! Dice erano venuti dall’Africa, ma perché non erano restati a casa loro? Sembra avessero un cervello meglio conformato, un principio di mento e ci sapevano fare di più con gli utensili, anche quelli di osso. Più alti e slanciati e che parlantina, i sapientoni! Incantavano le femmine, le portavano a vedere qualche graffito rupestre e si capiva che era fatto ad arte. Poi tante storie per l’alimentazione: una dieta più bilanciata di quella neanderthaliana di proteine e carne dei grandi animali, che, in effetti, per via del clima e della caccia, cominciavano a scarseggiare. Insomma dei fighetti, bastardi e furbi che soppiantavano i nostri Neanderthal in tutto e per tutto. Accidenti a loro! Sembrava non si ricordassero che entrambi, Sapiens e Neanderthal, discendevano dal grande Uomo Scimmia del Pleistocene che, da non molto tempo, era, a sua volta, disceso dagli alberi.

Le comete non sono come stelle cadenti che puoi esprimere un desiderio, sono eventi rari e annunciano il nuovo. Questa ha una coda spezzata dal vento solare. E ha sviluppato un’anticoda, ma pare sia solo un effetto ottico: un’illusione. Una più, una meno. Chissà! Il rumore dell’ascensore che si apre al piano della terrazza preannuncia visitatori. Un brivido di paura o forse è il freddo, mi stringo nel parka. Sono due uomini, escono dal buio e si avvicinano: uno è in maniche di camicia, ha un panama in testa, l’altro è vestito pesante come me. Il primo a farsi avanti, nonostante l’abbigliamento leggero, ha un fare risoluto, quasi militaresco, si toglie il cappello e un po’ per il freddo che fa, un po’ per il rispetto che incute, verrebbe voglia di dirgli: «tenga in capo!».

– Signor Celati, sono il Commissario Favati, ex per la verità, mi riconosce? Mi ha creato lei.

Lo riconosco, certo che lo riconosco, ho pubblicato, per fortuna solo in rete, racconti e raccolte con lui come protagonista. Una volta in pensione se n’era andato a Capo Verde, lasciando patria, baracca e burattini, seguendo l’inappagato desiderio del sottoscritto, suo autore. A tempo perso, richiesto e volontario, collaborava con le forze dell’ordine dell’Arcipelago a risolvere o non risolvere qualche caso: spesso vite e morti sono irrisolvibili. E poi lasciava passare la vita, o quel che ne resta, su quelle isole di paradiso, sospinte dai venti Alisei, circondate dal mare che confonde albe e tramonti.

– Commissario! Quanto tempo che non ci sentiamo, qual buon vento ti spinge fin qui?

– Vento di bufera e altro, Celati, perché mi ha tolto Pilar? Mi ha fatto quasi morire sul molo di Mindelo e poi mi ha riportato in vita per un’altra inutile indagine. E intanto la mia Pilar se n’era andata per un brutto male, come una creatura mortale qualsiasi. Che storia è? La rivoglio indietro. Allora era meglio se lasciava morire anche me. Non riesco più a vivere senza lei. Mi manca. Anche ora che sono diventato troppo vecchio per indagare sulla morte e la vita. Anche ora che nemmeno lei, il mio autore, si ricorda più di me. Mi basterebbe vivere per sempre, dimenticato, ma insieme a Pilar. La prego. Siamo fatti per nascere, non per morire. Perché tutto questo? Tutto questo dolore?

– Mi dispiace Commissario, hai ragione, anch’io sono invecchiato, incespico nelle parole e presto questo vizio di scrivere cesserà. E anche di parlare, taciturno già sono. Non posso farci niente, ormai. Resisti. E chissà che un giorno questo dolore non ti sia utile. Tutti iniziamo a morire appena nati, perché la vita è un conto alla rovescia e ogni giorno perdiamo qualcosa. Ma tu eri moribondo, non morto. E ti sei ripreso. Pilar era già defunta, per il suo male e forse per il tuo, la tua malinconia. È andata così. Un fatto letterario.

– Cattiva letteratura, se mi posso permettere. Però che le costa farla rivivere? Anche Sherlock Holmes era morto, finito in un crepaccio, e l’autore lo riportò in vita, prima con un flashback e poi scrivendo che la morte era stato solo un espediente.

– Grazie tante! L’autore era Sir Conan Doyle e lui era Sherlock Holmes. Dopo la sua morte migliaia di lettori infuriati ne rivendicarono la resurrezione, strapparono addirittura l’abbonamento della rivista che pubblicava i racconti. Io sono solo l’ineffabile Marco Celati e tu il misconosciuto Nedo Favati.

– Certo con quel cognome che mi ha affibbiato -e come nome Nedo, per di più- che fortuna mai potevo avere?! Ma Pilar, è un bel nome, ha un che di Hemingway: lei meriterebbe la resurrezione. Non è giusto morire così, per la scarsa vena e la mancata fama di un autore!

– Commissario, il tuo nome era una scanzonatura toscana voluta, provo fastidio per la gente e la fortuna, ma non credere che non senta la colpa per il mio insuccesso e per la scomparsa di Pilar. Ho vissuto la sua morte come un “delitto” inspiegabile. Poi tutto si dimentica. Anche te, Commissario, devi farlo. È il lavoro del lutto. La vita è così, scrivere è imitarla. E nessuno può tornare dalla morte, perché il nostro è un viaggio di sola andata. Posso solo dirti, Commissario, se questo può mai consolarti, che bisognerebbe essere grati per ciò che ci hanno lasciato coloro che sono venuti prima: per una semplice esistenza, come per un’opera d’arte. Come le stelle morte che continuano a illuminare la nostra vita e il suo divenire. Tornatene a Capo Verde, al caldo, alle tue isole ventose, al tuo mare oceanico, che è già tanto: alla deriva dell’Atlantico è meglio che alla deriva della vita. E qua fa un freddo becco che prende anima e ossa.

– Accidenti a lei, inefável Celati, sarebbe meglio che avesse letto di più e scritto di meno e mi avesse lasciato in pace o nei sogni, quelli con Pilar che mi bacia e mi dice “cretino” alla fine della storia. Me ne vado da queste stelle del jazz, morte o vive che siano, e torno alla sodade, alla morna capoverdiana a rimpiangere Pilar e ogni amore che si perde e che forse, altrimenti, non sarebbe amore. Non solo i delitti restano senza soluzione. Non tornerò più, come questa cometa verdognola dei nostri estinti progenitori. Adeus, signor Celati.

– Non fare così, Commissario! Arrivederci. Stammi bene…

Ma sapevo che probabilmente non l’avrei più rivisto. Né avrei più letto qualcosa di lui o scritto. Anche se scrivere è un piacevole dolore. Non si può mai sapere cosa passa nella testa delle persone, che filo segue o intreccia il destino. Arrivederci, addio, até logo, adeus Commissario Favati. Rientrò nel buio della notte, il bianco del panama fu l’ultima cosa che vidi prima che scomparisse. Ero rimasto assorto nei pensieri che si condensavano e sparivano come le nuvole ibernate del fiato, quando l’altro personaggio quasi mi aggredì. Ci mancava solo lui!

– Citrullo di un Celati! Che fai qui al freddo a fantasticare? Segui o ti rincorrono i rimpianti di una vita? La cattiva coscienza ti rimorde? Sedicente scrittore e ancor più improbabile poeta vivente! Melenso e piccolo borghese…

– Libero Venturi! Anch’io ti voglio bene. Non eri andato in pensione? Non ti eri stancato dei pedanti pipponi che propinavi ai tuoi nemmeno venticinque lettori?

– Sì, ero stanco, non comprendevo più il mondo e il mondo non comprendeva più me. Chissà se la cometa lassù l’ha ritrovato migliore, più giusto del tempo dei Neanderthal? Sicuramente sì, il progresso, ma anche cinquantamila anni sono tanti e si poteva fare di meglio.

– Ci vorrebbe un tuo trattato politico, erudito e noioso -più noioso che erudito- in materia! I fondamentali “Pensieri della Domenica” che la gente finiva di leggere lunedì…

– Prendi pure per il culo, ma dimmi un po’, ineffabile Celati, perché io mi sono ritirato, sono stato messo a tacere per stanchezza e tu invece continui a scribacchiare sentenziose e verbose smancerie?

“Per distrarti dalla politica, diventa romantico”, consigliava Stendhal. Forse per questo, mio caro amico e compagno…

– Addirittura Stendhal! Quello del Rosso e Nero, della Certosa e della sacra sindrome? Ma vaffanculo Celati, te e tutti gli autori!

Nottataccia. Era partita più allegra, ma finisce sempre così, nella recidiva del malumore. “Ed è il pensiero della morte che, infine, aiuta a vivere”. Gli amici vendemmiatori non mi inviteranno più nemmeno alla svina. Dice il vino fa male alla testa. E sarà anche vero, ma un po’ di ebbrezza, aiuta anche i più tristi di professione. Evoè! Esclamavano le baccanti in onore di Dionisio, dio del vino, della vite e del delirio mistico, nonché alcolico. Per questo anche il Fattore delle nostre vendemmie si chiama Evio.

Ma alla fine, ecco, c’era di nuovo Paolo Conte, pianoforte e kazoo: “Sotto le stelle del jazz/ Ma quanta notte è passata/ Marisa, svegliami, abbracciami/ È stato un sogno fortissimo…Sotto le stelle del jazz/ Un uomo scimmia cammina/ O forse balla, chissà”… Mi sono risvegliato al tavolo, con la testa piegata sul tablet. Era stato un sogno fortissimo. Forse la vita è solo un sogno. Magari, fosse tutto un sogno.

Marco Celati

Pontedera, Febbraio 2023

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“La luce delle stelle morte”, Massimo Recalcati

“Un giorno questo dolore ti sarà utile”, Peter Cameron

Dolor hic tibi proderit olim”, Ovidio, Amores

“Sera di Febbraio”, Umberto Saba

“Sotto le Stelle del Jazz”, Paolo Conte

Marco Celati

Paolo Conte - Sotto le stelle del jazz

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