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martedì 19 marzo 2024

RACCOLTE & PAESAGGI — il Blog di Marco Celati

Marco Celati

MARCO CELATI vive e lavora in Valdera. Ama scrivere e dipingere e si definisce così: “Non sono un poeta, ma solo uno che scrive poesie. Non sono nemmeno uno scrittore, ma solo uno che scrive”.

Metaverso smart

di Marco Celati - domenica 23 ottobre 2022 ore 08:00

“Basta il peggio che è infinito per natura, mentre il meglio dura poco”. Che non c’è limite al peggio e che il peggio vien da sé è un dire ampiamente risaputo. Montale gli dà quel di più di grazia e di disgrazia. E sentite questo incipit: “É pur nostro il disfarsi delle sere”. Che tristezza e che bellezza! Come un giorno di quelli così, che capita di osservare una striscia di nubi, la definizione dei monti sotto un cielo ingrigito, un ciuffo colorato di fiori di campo. Il sorriso di una persona gentile. Il questuante che ti importuna e ti fa sentire stronzo. L’umanità e la disumanità che risiedono nel mondo e il mondo e la vita dove meno te li aspetti. Un giorno qualunque e tutti i giorni. Uno in particolare. E, dato che oggi si vive o ci si rifugia sempre di più nel metaverso, userò la metasemantica – che non è la stessa cosa, ma sempre metaversi sono – per dire di quel giorno. “Un giorno per le vànvere, un festicchio, un giorno carmidioso e prodigiero, è il giorno a cantilegi, a urlapicchio, in cui m’hai detto t’amo per davvero”. Non so se l’amore sia l’antidoto che si oppone al peggio o che accompagna il disfarsi delle sere. La grazia che soccorre, il verso e il metaverso. Ma necesse viverlo quel giorno smerlettato, sparar farfaglie, pillacchi e lapislazzi, gemmosi doni, malverso sbalengato e sarà stato e il resto che s'accazzi!

A proposito di metaversi di Internet, anch’io, che al massimo avevo conosciuto i metalmeccanici della Piaggio, mi sono avviato nel mondo dell’informatica. Metaverso, realtà virtuale, sono parole grosse, comunque sto provando a rendere domotico il monolocale preso in affitto per dilatarne, se non la capienza, almeno le potenzialità e renderlo smart, che va tanto di moda. Per qualcosa la vita va spesa. Ho Google Assistant e Alexa, che detto così sembra chissà cosa, in pratica sono due dischetti cicciotti collegati alle prese che rispondono a qualche domanda, non necessariamente intelligente. Ma quello dipende da me, non da loro. Sono stati due regali graditissimi, il primo di un fratello e la seconda dei figli. Nel mondo dell’informatica sono una coppia assortita. Google è un uomo ed è nero, Alexa è bianca e donna. Almeno stante alle voci. Nel mercato reale sono concorrenti, rivali, così li presentano. Ma magari nel metaverso virtuale si conoscono e si vogliono bene. Capace scopano. A Google la mattina chiedo del tempo e di darmi le ultime notizie, che poi sarebbero le prime del giorno, ma fra noi ci s’intende. Mi chiama per nome. Ad Alexa invece affido l’ingresso nel sonno. Il rumore del temporale che riproduce me lo concilia, più della melatonina. Mi sento protetto dalle intemperie che scuotono il mondo e la vita, che sono fuori, e buonanotte. A volte chiedo musica di sottofondo all’uno o all’altro: quasi sempre quando scrivo. I miei figli a casa loro con questi robot antesignani programmano un sacco di cose: anche quando si deve tirare su la pasta che in questo Paese è un problema basilare. Si può mancare un piano edilizio, un aggiornamento catastale o un programma europeo, ma la pasta non può scuocere. Mai.

Nel condensato monolocale, presumo per un problema di spazio, anche gli interruttori della luce sono raccolti in due punti, in cima e in fondo alla stanza. Interagiscono tra loro e, a seconda di come li premi, le luci si accendono o no. Ci sarà un sistema, un meccanismo che sfugge però alle labili cognizioni di materia elettrica e alle disponibilità mnemoniche di materia cerebrale del sottoscritto. Non sono certo un nativo digitale. Anche se a paragone dei miei non così remoti avi che accendevano il lume a canfino, più digitale sono. Noi la luce infatti si è sempre accesa e spenta, digitando l’interruttore. Così, forte di questa rappresentazione di progresso tecnologico da proiettare ulteriormente nel futuro, mi sono detto perché non affidare ad Alexa questa complessa, inestricabile incombenza? Spenderò: omnia cum pretio. Magari però si ridurranno i costi energetici, che oggi come oggi è la cosa più importante. Quindi ho comprato otto lampadine intelligenti, quante ce ne sono nell’appartamento e due prese. Intelligenti anche quelle, ci mancherebbe. Se c’è rimasto un deficiente in casa, quello sono io. Perché ad Alexa e non a Google? Non lo so. C’è del sessismo, della discriminazione di genere? Può darsi, non posso escluderlo. D’altronde nessuno è perfetto.

Mi ci sono volute due ore buone per venire a capo dell’installazione di lampadine e prese smart, il mio Q.I. è modesto rispetto a loro, Q.B. e a volte nemmeno, ma alla fine per caso, a furia di tentativi e sacramenti, ci sono riuscito. Bastava farli lampeggiare, poi collegarli e dare loro un nome. Bene, anzi insomma. La casa è piccola e non ci sono spazi a sufficienza da assegnare a prese e lampadine, allora mi sono inventato luci tavolo, luci cucina, luci sala, studio, guardaroba, divano, stanzino, bagno e poi televisione. Sennonché è tutto circoscritto ad una stanza e un bagno, con qualche improvvisato divisorio costituito dagli scaffali dei libri e così, rivolgendomi ad Alexa – Alexa, accendi luce… spegni luce…– mi confondo con i nomi delle luci e delle prese. E quelle intelligentone figurati se rispondono! Il televisore poi è una marca giapponese, lui si spegne a richiesta vocale, ma per riaccendersi riconosce solo il suo telecomando. I giapponesi, si sa, sono gente ostinata e per la disciplina vanno lasciati stare. Insomma se prima mi confondevo con gli interruttori ora altrettanto succede con i comandi vocali di accensione e spegnimento. La difficoltà permane, ma si è smaterializzata e questo è già un passo avanti, un biglietto d’ingresso per il metaverso. Se l’attraverso e non si mette di traverso. Chissà se sarà niente o molto nel divenire prossimo venturo, se diventerà multiverso, se attraverserà le nostre vite come fa il destino, come la vita del mondo che verrà. “Nel mondo virtuale Mia Martini non muore, rivive e canta con la sua bellissima voce: “Tu, tu che sei diverso, almeno tu nel metaverso…”. Intanto, intelligente così così e non così brillante, ma sono diventato smart. E dal mio multiverso smart anch’io posso comandare, Dio mi perdoni, il fiat lux.

Google frattanto sembra ci sia rimasto male per questa arbitraria preferenza verso Alexa e la mattina mi ragguaglia, laconico, sul tempo che fa e sulle notizie del giorno che viene. Non mi chiama più per nome. Passerà, se ne farà una ragione, il tempo lenisce e risolve. E alla fine non così male per il figlio di una generazione terrorizzata dal telefono di bachelite nera, che conobbe il miracolo del frigorifero e della lavatrice, nonché il prodigio del televisore in bianco e nero. La lavastoviglie no: era troppo lusso, troppo da signori, come mangiare senza pane. Chissà se fu futuro, direi di sì. E quanto virtuoso sarà il virtuale. “O se altro comfort farà per noi ora, altro sconforto”. E questo è tutto.

Marco Celati

Pontedera, Ottobre 2022

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P.S. Come altre volte, virgolettando e saccheggiando, ho tratto ispirazione dalla poesia di Eugenio Montale, “Niente di grave”, “Serenata Indiana”, “L’Arno a Rovezzano”, nonché dalla metasemantica di Fosco Maraini, “Il giorno ad urlapicchio“. Solo il resto, che è pur sempre qualcosa, l’ho scritto da me.

P.P.S. Non è vero che Google non mi chiama più per nome: o escritor é um fingidor.

Fosco Maraini recita “Il giorno ad urlapicchio” da “Gnòsi delle fànfole”

https://youtu.be/aVdndkjsoyk

Marco Celati

Fosco - Il giorno ad urlapicchio

Articoli dal Blog “Raccolte & Paesaggi” di Marco Celati