Persona
di Marco Celati - giovedì 17 aprile 2025 ore 08:00

Esseri umani, donne, uomini, giovani, vecchi, illustri e decaduti, signori e povera gente. Non importa il genere, l’età, il titolo o la condizione. Persone. Siamo persone. Sono stato una persona. Leggo su Wikipedia che il termine deriva dal latino “persōna”, significa corpo, maschera dell'attore, personaggio, e proviene, probabilmente, dall'etrusco “phersum”, il quale a sua volta procede dal greco “prósôpon”. E prosopopea è dar voce e importanza a cose, ad astrazioni retoriche, ad assenti o defunti, spesso con ridicola gravità, e sta anche per alterigia, presunzione, supponenza. Viene da chiedersi allora se siamo attori, maschere dietro cui celarsi e far risuonare la voce, personaggi presunti e supponenti. Oppure se siamo creature, soggetti, singolarità, individui di specie umana, accomunati dall’umana natura che tutti comprende e oggettiva.
Walt Whitman, il poeta americano, quello di “capitano, mio capitano”, sosteneva di essere molte persone insieme: mi contraddico, contengo moltitudini, sono “vasto”, indomito, intraducibile, “emetto il mio barbarico urlo sopra i tetti del mondo”. E il portoghese Pessoa non era da meno con i suoi eteronimi -più che pseudonimi, altri da sé- e la sola moltitudine che rappresentava, il suo baule pieno di gente, per dirla con Tabucchi, suo traduttore. Il quale parlava per il dottor Pereira di confederazioni di anime e di un io plurale, egemone e provvisorio.
E, a proposito di maschere e identità, che dire del sofferto “Uno, nessuno e centomila” di Luigi Pirandello, con i suoi enigmatici personaggi? A Vitangelo Moscarda, detto Gengè, la moglie fa notare che il naso gli pende verso destra e da qui comincia il dramma. A noi pende a destra il mondo, altro che dramma! Tragedia. Che dovremmo fare, dunque? Autodistruggerci, assecondare la catastrofe? Oppure incarnare tutte le rabbie della Terra. Contrastare la deriva del mondo, in qualche modo compensare la perdita di senso della vita.
“Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né partecipazioni. Morto, non mi si vesta. Mi s'avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso. Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m’accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. E il mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l’urna cineraria portata in Sicilia e murata in qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui”.
Pirandello scrisse queste istruzioni per la sua morte su un biglietto spiegazzato, ma per vicissitudini ironicamente pirandelliane le ceneri del grande letterato, rimaste nel vaso greco riportato ad Agrigento e sottoposte alle analisi del DNA, rivelarono che appartenevano a corpi diversi, a causa della cremazione comune, e ora riposavano, mescolate alle sue. Siamo noi, siamo soli, siamo tutti e nessuno. “Personne”, in francese, vuol dire “nessuno”. Oltretutto con l’erre moscia. “Il mio nome è Nessuno”, dice Ulisse Odisseo al ciclope Polifemo. Occhio!
Siamo nati dall’amore e dal caso. E alla fine chi siamo, chi sono? A chi, a cosa appartengo? Al mio nome, alla mia storia? A chi cammina con me, con noi, alle moltitudini? Siamo forse prigionieri di noi stessi? Apparteniamo alla vita che facciamo o la vita appartiene a noi perché la possiamo vivere, cambiare, tramandare, sprecare, perdere? C’è chi ha detto che siamo figli di un Dio danzante, l’unico nel quale poter credere. La via, la verità, la vita che a lui solo appartiene. Francamente non credo, mi dispiace e -Dio mi perdoni- me ne rallegro. Ma non me ne infischio. Mia la vita, questa specie di vita, e pure la morte. Conclusa la mia vicenda, mi dimenticherò e sarò dimenticato. È giusto così per le persone che verranno. Che vivano e amino, se possono, più lievi, affrancate da noi nella vita e sulla terra. E di noi resti poco o niente, un simulacro, un sepolcro, un’urna, un’effigie. O solo polvere nel vento, che scuote gli alberi da frutto e accarezza le siepi in fiore. Sulla terra, che fa crescere l’erba.
Marco Celati
Pontedera, Aprile 2025
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P.S. Francamente sono portato a pensare che, come siamo niente prima di nascere, così saremo niente dopo morti. Anche se non è la stessa cosa. Chissà se nascere come persone e poi moltitudini, presuppone acquisire un’anima di noi e del mondo, che persiste. Se ci fosse una resurrezione, buon per chi lo ha creduto e alla fine anche per noi. Non credo, ma intanto che la natura bistrattata comunque sembra risvegliarsi e risorgere, Buona Pasqua ai famosi venticinque lettori.
Marco Celati