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lunedì 11 novembre 2024

PENSIERI DELLA DOMENICA — il Blog di Libero Venturi

Libero Venturi

Libero Venturi è un pensionato del pubblico impiego, con trascorsi istituzionali, che non ha trovato niente di meglio che mettersi a scrivere anche lui, infoltendo la fitta schiera degli scrittori -o sedicenti tali- a scapito di quella, sparuta, dei lettori. Toscano, valderopiteco e pontederese, cerca in qualche modo, anche se inutilmente, di ingannare il cazzo di tempo che sembra non passare mai, ma alla fine manca, nonché la vita, gli altri e, in fondo, anche se stesso.

La macchina per scrivere

di Libero Venturi - domenica 22 settembre 2019 ore 09:15

Nei pensieri di domenica scorsa ho accennato alla macchina da scrivere, che poi sarebbe più giusto dire “per” scrivere. Ricercandone la storia, ho appreso che è stata inventata da un italiano. Che cosa non si deve al genio italico! Il suo inventore fu infatti Pietro Conti, un ingegnere nato nel 1796 e morto nel 1856 a Cilavegna, piccolo centro del Pavese. Il Conti, nonostante le sue origini provinciali, ebbe una vita “varia ed avventurosa”. Isolato e incompreso dai cilavegnesi, in prevalenza contadini, tanto da apparire quasi uno squilibrato, essendogli state contrastate le nozze con una giovane morosa compaesana, fuggì con lei a Parigi dove pensò di sfruttare la sua invenzione, già ideata nel 1820: una macchina “capace di tenere dietro alle parole di un oratore”, utile anche per la scrittura dei ciechi. La solita storia della fuga dei cervelli all’estero. In questo caso piuttosto antesignana.

Insomma, nel 1827 il nostro illustre esule propose un modello della sua macchina per scrivere alla “Société d'encouragement pour l'industrie nationale” dalla quale ottenne anche una sovvenzione in denaro. E il 10 agosto dello stesso anno presentò all'Accademia delle scienze di Francia la descrizione di due macchine: il "tacheografo" -dal greco tacheos, celeremente, e grapho, scrivere- e il "tacheotipo" -sempre dal greco tacheos, celeremente, e typos, tipo- nella letteratura dell'epoca anche denominate “tachigrafo” e “tachitipo”. Non sappiamo quale fosse la differenza tra le due. Forse si trattava della descrizione della stessa macchina. Né lo sapremo mai, perché i brevetti andarono perduti. Nel 1833 Conti tornò in patria, la sua invenzione non ebbe successo: era una tecnologia troppo avanzata per il tempo.

Sta di fatto che le fonti e le relazioni scientifiche dell’epoca testimoniano che le soluzioni adottate nel 1856 dall’avvocato novarese Giuseppe Ravizza, inventore di un altro prototipo di macchina da scrivere, furono successive all'invenzione del Conti. Il Ravizza stesso entrò in contatto con lui per la realizzazione della sua macchina che chiamò “cembalo scrivano”: con i tasti, invece di suonare, si scriveva. Anche Ravizza propagandò la sua invenzione per motivi umanitari, cioè per far scrivere i ciechi.

Tuttavia in Italia si ha notizia di una macchina per scrivere funzionante già nel 1802. Fu creata a Fivizzano, in provincia di Massa-Carrara, nella nostra bella Toscana, dal conte Agostino Fantoni che definì la sua invenzione "una preziosa stamperia". Forse fu la prima macchina per scrivere al mondo. Alcune lettere di quella “stamperia”, che sembrano battute da una moderna macchina da scrivere, si conservano presso l’Archivio di Stato di Reggio Emilia. Oltretutto sono impresse utilizzando per la prima volta nella storia la “carta carbone”. In una lettera di Baldassare Vetri in Pisa, datata 29 maggio 1802, si riconosce al Fantoni il valore della “ingegnosissima invenzione con cui si è reso caro e memorabile all'Umanità”. Il conte inventò la macchina per la sorella, la contessa Carolina, diventata cieca.

Però, mentre l’avvocato Ravizza brevettò nel 1855 il suo “cembalo scrivano”, della “preziosa stamperia” del conte Fantoni, oltre alle lettere, non rimane altra testimonianza. La macchina fu perfezionata da un inventore di Castelnuovo Garfagnana, certo Pellegrino Turri, amico del conte e più che altro della contessa. Sennonché gli eredi del Turri la distrussero, ritenendola cosa inutile. Perché noi toscani siamo così: maledetti! Tutti quanti.

Va detto che un'altra persona a cui è stata attribuita l'invenzione della macchina da scrivere è l’altoatesino Peter Mitterhofer, del quale ci resta il primo modello chiamato “Vienna 1864”.

Comunque il Ravizza morì a Livorno nel 1885, anch’egli senza aver visto l’affermazione della sua macchina da scrivere che pure aveva presentato all’Esposizione industriale di Torino e ad altre mostre, riscuotendo grande ammirazione. Intanto dall’America la Società Remington vendeva in tutto il mondo macchine da scrivere nelle quali venivano applicati i principi su cui si basava la sua invenzione. La “Remington No.1”,azionata da un pedale come una macchina da cucire, fu brevettata nel 1868 da Christopher Latham Sholes che probabilmente vide la macchina del Ravizza in un’esposizione in Inghilterra.

Nel 1940 il Podestà di Ivrea, per conto della Società Olivetti, donò al Museo Civico del Broletto di Novara un modello del “cembalo scrivano” con tutti i brevetti attinenti che documentavano la priorità italiana nell’invenzione della macchina da scrivere. Insomma è andata un po’ come il telefono dell’italiano Meucci, brevettato negli Stati Uniti da Bell, come l’elicottero di Corradino D’Ascanio, che l’americano Sikorsky fece volare nel mondo. E meno male che il genio abruzzese si rifece con la Vespa di Piaggio! È andata come vanno queste cose: il genio senza industria e finanza non paga. S’attacca. Diciamo al tram.

La Società Olivetti produsse a sua volta macchine da scrivere. Fra queste la mitica portatile Lettera 35”. Anch’io ne avevo una, quando pensavo di fare lo scrittore o che comunque scrivere mi servisse a qualcosa. Poi vennero i modelli elettro-meccanici. Chi ricorda le sottili gomme a dischetto per cancellare, il bianchetto per coprire gli errori? E le macchine elettroniche che funzionavano con la testina a sfera, a pallina, a margherita? E poi i volantini stampati dagli angeli del ciclostile. Tempi andati! Rinasco, rinasco del mille novecento sessanta.

E così siamo arrivati alla conclusione. Nata sul finire del XIX secolo, la macchina per scrivere o da scrivere che dir si voglia, che originò anche una nuova materia, la dattilografia e una professione, in gran parte riservata alle donne, alla fine del XX secolo era già scomparsa. Tra l’altro se avevi una fidanzata dattilografa, si diceva che di lavoro “batteva” e non era bello. Oggi la macchina da scrivere è stata rimpiazzata quasi completamente dai personal computer che contengono più programmi di videoscrittura. Non ha retto all’impatto con il Digitale. Anche la mia Olivetti, intesa come portatile, non esiste più. È andata persa nel passaggio da una casa all’altra e, quel che è peggio, nemmeno l’Olivetti, intesa come azienda, esiste più. Si è persa anche lei nel passaggio di questi anni difficili.

Pietro Conti c’è anche da noi. Il nostro però non ha inventato la macchina da scrivere, ha dato il nome a una frazione e si scrive tutto attaccato: Pietroconti. Ci sono la Fornace e i Laghi Braccini. Le frazioni di Pietroconti e Botteghino compongono il paese di La Rotta. E non vi azzardate a confonderle. D’altronde tutto il mondo è paese, qui e anche in Piemonte o in Lombardia dove i rottigiani andavano a fare i mattoni. E Pavese diceva che “un paese ci vuole”, ma non ha lasciato scritto nulla circa le sue dimensioni. E quindi va bene così. Tra l’altro se “googlate” Pietro Conti la prima cosa che viene non è l’inventore della macchina per scrivere o l’omonimo esponente comunista italiano che fu Presidente dell’Umbria e Sindaco di Spoleto e nemmeno il paese. Viene “fermata dell’autobus a Pontedera”. Anche il Digitale, pur comprendendo tutto e forse proprio per questo, ha i suoi limiti. È tutta una questione di algoritmo. Perché un paese ci vorrà anche, ma senza un algoritmo, oggi come oggi, non si va da nessuna parte. Nemmeno a Pietroconti. Buona domenica e buona fortuna.

Libero Venturi

Pontedera, 22 Settembre 2019

Libero Venturi

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