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Attualità domenica 28 marzo 2021 ore 12:59

"La povertà troppo assente dal dibattito pubblico"

Il cardinale Betori
Il cardinale Giuseppe Betori in una immagine di repertorio

Il richiamo a volgere lo sguardo verso gli ultimi e i penultimi è stato lanciato dal vescovo Betori durante l'omelia della domenica delle Palme



FIRENZE — "Penso agli scenari della povertà e dell’emarginazione, troppo spesso assenti dal dibattito pubblico, ovvero alla dignità umana e all’intangibilità della vita, troppe volte ferite da culture e legislazioni in cui sono messi in discussione i fondamenti stessi del concetto di persona, della cura della vita in ogni suo momento, delle relazioni familiari culla della vita": è, questo, uno dei passaggi chiave dell'omelia proclamata dall'arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, in occasione delle celebrazioni per la domenica delle Palme nella cattedrale di Santa Maria del Fiore.

Le pagine del vangelo oggi narravano l'ingresso di Gesù a Gerusalemme, poi la sua Passione: "I due eventi, nella cronologia della vita di Gesù, sono separati da soli cinque giorni, ma in essi si manifestano due atteggiamenti contrapposti nei suoi confronti. In quei pochi giorni - sottolinea il vescovo - si passa dall’Osanna! di chi alle porte della città aveva riconosciuto in lui il Messia, al Crocifiggilo! di quanti – gli stessi? – di lì a poco in lui avrebbe visto soltanto un malfattore".

Cosa accade, in quei giorni? "In questo cambiamento delle folle opera senza dubbio la suggestione di un’opinione pubblica che i capi del popolo sono abili a manipolare e a piegare dalla propria parte, facendo valere il potere di cui dispongono a livello religioso, culturale e politico, anche minacciando possibili risvolti negativi nei rapporti con il dominio dell’impero romano. Sono logiche che si ripetono lungo i secoli, attraversando i fenomeni della comunicazione e del controllo delle coscienze, l’intreccio dei poteri economici, culturali e politici. Non ne è esente neanche il nostro tempo, in cui la visione cristiana della vita e della storia rischia di diventare irrilevante, quando non espressamente bandita dai luoghi in cui si decide dell’uomo, della sua persona", è il monito del cardinal Betori.

Ma ecco il testo integrale dell'omelia odierna in occasione della domenica delle Palme.

Abbiamo proclamato due pagine del vangelo: la prima, all’inizio della celebrazione, ci ha narrato l’ingresso di Gesù a Gerusalemme; l’altra, il racconto della Passione del Signore, ci ha condotto a meditare il mistero della Croce. I due eventi, nella cronologia della vita di Gesù, sono separati da soli cinque giorni, ma in essi si manifestano due atteggiamenti contrapposti nei suoi confronti. In quei pochi giorni si passa dall’“Osanna!” di chi alle porte della città aveva riconosciuto in lui il Messia, al “Crocifiggilo!” di quanti – gli stessi? – di lì a poco in lui avrebbe visto soltanto un malfattore.

In questo cambiamento delle folle opera senza dubbio la suggestione di un’opinione pubblica che i capi del popolo sono abili a manipolare e a piegare dalla propria parte, facendo valere il potere di cui dispongono a livello religioso, culturale e politico, anche minacciando possibili risvolti negativi nei rapporti con il dominio dell’impero romano. Sono logiche che si ripetono lungo i secoli, attraversando i fenomeni della comunicazione e del controllo delle coscienze, l’intreccio dei poteri economici, culturali e politici. Non ne è esente neanche il nostro tempo, in cui la visione cristiana della vita e della storia rischia di diventare irrilevante, quando non espressamente bandita dai luoghi in cui si decide dell’uomo, della sua persona. Penso agli scenari della povertà e dell’emarginazione, troppo spesso assenti dal dibattito pubblico, ovvero alla dignità umana e all’intangibilità della vita, troppe volte ferite da culture e legislazioni in cui sono messi in discussione i fondamenti stessi del concetto di persona, della cura della vita in ogni suo momento, delle relazioni familiari culla della vita.

Nella Passione questo dramma dell’uomo ricade sulla persona del Figlio stesso di Dio fatto uomo, la cui vita è disprezzata e rifiutata. Al centro del processo che lo vede protagonista sta il riconoscimento di un’identità: «“Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?” Gesù rispose: “Io lo sono!”» (Mc 14,61-62). Sulla pretesa di Gesù di essere la presenza di Dio per noi e sulla nostra accoglienza di lui come Dio che si è fatto vicino a noi, si decide della vita di Gesù e della nostra.

Questo dramma viene descritto nel vangelo secondo Marco senza molti commenti, senza indulgere in analisi psicologiche. Tutto è affidato alla crudezza dei fatti – nella irriverenza che portano con sé i fatti a differenza delle opinioni, suscettibili di ogni addolcimento –, perché l’abisso d’iniquità e di dolore che trasuda dai fatti della Passione basta da solo a dire l’infamia del misfatto che si consuma e quindi la grandezza del gesto di verità e di amore di cui è protagonista Gesù, agnello innocente che si offre al sacrificio.

C’è un pericolo, che si può insinuare anche nella più pura prospettiva di fede, che consiste nel voler a forza spiritualizzare la concretezza storica della vita del Signore, quasi si abbia paura di toccare lo scandalo dell’umanità in cui il Figlio di Dio si è fatto presente tra noi. Nulla di più sbagliato, perché su questa strada di falsa spiritualizzazione ci si può trovare ben presto a cadere nella riduzione mitologica del mistero dell’incarnazione o nella sua evaporazione nella gnosi. È anche la deriva che porta a chiudere gli occhi di fronte alle fragilità umane che ci circondano, a non sentire la concretezza dell’essere fratelli facendoci carico gli uni delle sofferenze degli altri. Questa concretezza della solidarietà fraterna l’abbiamo invece misurata in questo tempo di pandemia come l’unica forma che permette di sentirci ancora umani. Sarà importante portarla con noi, come una ricchezza a cui non rinunciare, oltre questa emergenza, perché, come segnala Papa Francesco: «Peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi».

È allora importante tornare al realismo dell’evangelista Marco, per riassaporare la concretezza dell’incarnazione di Cristo e la realtà tragica della sua passione, base indispensabile per un cristianesimo che non voglia sfuggire alla concretezza della storia e al confronto con gli interrogativi mutevoli delle vicende degli uomini. Ma il realismo della descrizione dei fatti, se ci aiuta a confermarci nella verità della vicenda narrata, non basta ovviamente a farci capire il senso del dramma che si compie. Ed ecco allora il ricorso alle parole delle antiche Scritture, spesso messe in bocca allo stesso Gesù, per indicarci la direzione verso cui guardare per intendere il significato della Passione. Lo fa anche la liturgia, accostando le pagine del vangelo al testo del secondo Isaia, che ci parla delle sofferenze del servo del Signore, carattere distintivo della fedeltà alla missione affidatagli da Dio e modo con cui questa missione rivela il suo volto salvifico. Perché è proprio questa prospettiva salvifica a darci il senso ultimo di un dramma che è sì di dolore immenso ma al tempo stesso è anche di salvezza. Lo esplicita l’inno della lettera ai Filippesi, anch’esso proclamato in questa liturgia, dove l’intera vicenda storica di Gesù è riassunta nella dinamica di umiliazione ed esaltazione: lo svuotarsi di sé da parte del Figlio di Dio e il suo farsi carico del peccato del mondo è necessario perché si realizzi l’innalzamento con cui Cristo riconduce al Padre sé stesso e, con sé, l’intera umanità.

Nelle vicenda di Gesù sta il senso profondo della vita umana, che si disperde fuori dal legame con Dio. È la sfida che sta di fronte alla Chiesa e ai credenti oggi: non lasciarsi soggiogare dai paradigmi che dominano la cultura contemporanea, in particolare il soggettivismo individualista e il biologismo che nega spazio alle ragioni dello spirito e alle domande sul senso della vita e del mondo; al tempo stesso essere capaci di una testimonianza che mostri come la fede, Gesù e il suo vangelo abbiano da dire qualcosa di risolutivo agli interrogativi più profondi del cuore, quelli che riemergono anche sotto la coltre delle confuse opinioni dominanti.

Così che, se oggi viene chiesto anche a noi di entrare in Gerusalemme, di ascendere alla santa città, siamo posti di fronte a una scelta senza vie di scampo: o fare come i discepoli e le folle, che di fronte al consumarsi del dramma si allontanano o si fanno oppositori, ovvero scegliere di condividere con Gesù la medesima logica della donazione di sé e dell’amore che non teme la sofferenza, ma anzi in essa trova le forme più adeguate per esprimere la svuotamento di sé e l’abbandono al fratello. 


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