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Cultura giovedì 16 novembre 2023 ore 17:00

Massimo Giannoni, i grumi che diventano libri

Il pittore toscano, nato ad Empoli nel 1954 ma che vive a lavora a Firenze, in mostra alla nuova Libreria Giunti Odeon



FIRENZE — Ad Antonio Magliabechi, deforme e trasandato erudito fiorentino del Settecento, il grande quadro di Massimo Giannoni della Magliabechiana deserta esposto in questi giorni alla Libreria Giunti Odeon di Firenze piacerebbe di sicuro.

Il Magliabechi amava i libri tanto da usarli anche come materasso ma non amava le persone e nella sua biblioteca non voleva nessuno, anche se poi alla sua morte la Magliabechiana divenne il primo nucleo della Biblioteca Nazionale di Firenze, aperta al pubblico già nel Settecento.

Massimo Giannoni, pittore nato ad Empoli nel 1954 ma che vive a lavora a Firenze, ha dipinto la Magliabechiana in grande formato, con la sua tecnica pittorica conosciuta ed apprezzata in tutto il mondo sia nell’ambiente dei galleristi che in quello dei collezionisti.

Come in tante altre opere che rappresentano biblioteche o librerie, l’attenzione di Giannoni si è concentrata sull’ambiente e non sulla figura umana, sapendo parlare però allo stesso tempo dell’uomo e del tempo che passa inesorabile.

I libri, che contengono le conoscenze accumulate in migliaia di anni, diventano il simbolo della storia che si estingue e del tempo che trascorre.

E’ l’accumulo l’altro tema caro a Giannoni, ben rappresentato in luoghi come appunto le biblioteche, gli interni di librerie, le bacheche di musei ma anche le piazze o le sale di contrattazione finanziarie, le stock exchange.

Talvolta la massa di informazioni è riposta nello scaffale di una libreria in attesa che qualcuno la faccia tornare alla luce, talvolta è consumata in fretta come quando scorre sugli schermi di una sala di Borsa.

La tecnica di Massimo Giannoni è materica, caratterizzata dalla stratificazione di colori ad olio pastosi, grumi stesi con la spatola che esaltano il potere espressivo dell’opera in quanto i contorni si dissolvono e si sfaldano e solo da una certa distanza l’immagine si ricompone.

Oltre al quadro che rappresenta la Magliabechiana nel foyer della Libreria Odeon sono esposte altre sette opere, tra cui due quadri di piccolo formato e due grandi tele verticali che portano per mano il visitatore nel mondo delle librerie di Massimo Giannoni.

Abbiamo preso un caffè con Massimo Giannoni, occasione per scambiare quattro chiacchiere.

Nell'aprile 2002 chiude a Firenze la storica Libreria Seeber e tu sei presente con i tuoi quadri nella mostra “Alfabeto Dipinto”. Da allora la Seeber ha continuato ad ispirarti e l’hai rappresentata in numerose tele ed in tante declinazioni. Perché proprio la Seeber?

Ero appena tornato da un viaggio da New York per certi aspetti deludente. In quel periodo facevo acquerelli di grandi dimensioni astratti e ritratti su commissione. Avevo avuto contatti con galleristi ma non ero riuscito ad agganciarmi al mercato newyorchese. Inoltre, il mio lavoro veniva a volte criticato sul presupposto che i miei acquerelli non sarebbero durati nel tempo, balla micidiale visto che tutta l’arte orientale utilizza la carta da millenni. Decisi di tornare in Italia. Un giorno entrai alla Seeber in Via Tornabuoni e fui molto colpito dal luogo molto particolare, dagli arredi di legno pregiato, le volte affrescate, dalla distesa di libri e da come erano disposti sui banconi, pile che mi ricordavano i grattacieli di Manhattan. È come un paesaggio mi dissi. Ebbi una reazione forte che artisticamente mi fece concepire una pittura contrapposta a quella che avevo fatto fino ad allora. Passai ad una pittura materica, ad olio, certamente durevole. Io non metto nessun medium, nessuna preparazione a gesso. Sotto i colori uso una tela di lino completamente cruda senza nemmeno il bianco. Portai sulla tela questi grumi di pittura ad olio molto spessi, tutto il contrario del niente dell’acquerello, in totale opposizione a quanto fatto prima. Devo anche dire che dipingere costole di libri semplicemente con il pennello sarebbe stato estremamente banale. C’è un secondo processo nella mia pittura, una illusione ottica che fa diventare copertine di libri i miei grumi completamente astratti che non c’entravano nulla con ciò che rappresentavano. Questo gioco riuscì. La Seeber mi attirava e prima della chiusura scattai molte fotografie che ancora oggi riesco ad usare per realizzare opere che sono tutt’altro che copie delle precedenti. Alla Seeber era molto intrigante il gioco di luci acide che uscivano dalle mensole andando ad illuminare le copertine dei libri ed il legno rossiccio, creando contrasti molto belli. Inoltre, per me è un luogo di affezione che vado a visitare tutte le volte che ne faccio un nuovo quadro un po' come Giorgio Morandi faceva con il suo tavolo, protagonista in tante opere e che gli consentiva in tutte le sue declinazioni di continuare il dialogo con il suo mondo oppure come Cezanne “sur le motif” a ritrarre il Sainte-Victoire.

Dopo vent’anni ed i tuoi quadri tornano a Firenze a contatto con i libri. Sembra quasi che le tue opere riaccompagnino il ritorno dei libri sugli scaffali ad attendere lettori così come vent’anni fa i tuoi quadri avevano accompagnato i libri nell’oblio, visto che era anche un periodo in cui a Firenze le librerie chiudevano una dopo l’altra. C’è un nesso, un filo che lega queste due mostre?

Onestamente devo dire di no. È solo un caso, una bella opportunità che ho colto, giunta attraverso l’amico gallerista Fabio Fornaciai che poi ha coinvolto anche Sergio Risaliti, direttore del Museo 900. La mia presenza a Firenze in questo ventennio è stata abbastanza irrilevante, ho sempre lavorato molto con gallerie di Roma, Milano, Londra ed altre città. Devo dire però che fa piacere vedere rinascere il mondo delle librerie. All’epoca della chiusura della Seeber erano tempi in cui si parlava effettivamente della fine del libro stampato. Ci si aspettava un immediato futuro in cui tutto doveva essere mediale, digitale. E invece a parte un breve periodo per così dire emozionale nei confronti delle nuove tecnologie e dei relativi strumenti di lettura la carta stampata è tornata ad occupare il suo spazio e ben venga anche la Giunti Odeon, uno scrigno di cultura in più. Oltretutto nella ristrutturazione sono stati molto bravi a mantenere l’emisfero superiore della galleria per proiettare film. Una bella opportunità per due settori, quello dell’editoria e della cinematografia, che periodicamente attraversano molte difficoltà.

Una libreria o una biblioteca sono lo spazio espositivo ideale per le tue opere che parlano di libri?

Sinceramente no. Il mio lavoro è sull’accumulo, non solo di libri. Le mie librerie affascinano e sono volute dal mercato ma ho dipinto e dipingo altri soggetti. Ad esempio gli interni della Specola con le bacheche piene di uccelli imbalsamati, la gipsoteca di Porta Romana a Firenze, alcuni ambienti di Palazzo Pitti, le piazze viste dall’alto piene di gente o gli stock-exchange, dove l’accumulo non si legge attraverso la staticità dei libri sulle scaffalature ma attraverso i flash delle luci acide, i led che contano l’elevatissimo numero di contrattazioni, dalla durata di una frazione di secondo.

Cosa leggi?

Sarò sincero. In questo periodo sono un lettore pigro, compro tanti libri ma troppo spesso smetto quasi subito di leggerli. Mi piace la narrativa di agevole e piacevole lettura, testi che scorrano bene come ad esempio i libri di Montalban su Pepe Carvalho o quelli di Marco Vichi sul commissario Bordelli. Riprendo gli storici e gli scrittori russi. Mi piacciono le biografie dei grandi personaggi ed in passato leggevo molta poesia. E poi devo dire la verità, ultimamente sono stato molto impegnato con la pittura e gli occhi si stancano facilmente.

Come nasce un tuo dipinto?

Filologicamente nasce con un pensiero, un flash della memoria, un ricordo di una cosa vista che intendo ricreare oppure dalla sospensione data da uno stato d’animo. Questa è una parte dell’ispirazione. Non vorrei scomodare Mozart ma anche lui aveva una, due battute d’ispirazione e poi le altre venivano di traspirazione, cioè conseguenziali. Dopo viene la costruzione tecnica del quadro, se vuoi abbastanza fredda, fatta ad esempio di bilanciamenti di quello che voglio dipingere. Alla fine, diventa una questione più tecnica che filologica.

A quali artisti hai guardato nella tua formazione?

Ho fatto l’accademia e nei primi anni Settanta eravamo tutti innamorati di Francis Bacon. I miei rimandi più sentimentali che tecnici erano Botticelli e Modigliani per la sensualità che hanno dato alle loro opere. Successivamente ho cercato assonanze che mi potessero aiutare tecnicamente, soprattutto Rembrandt e Frans Hals, che avevano questa capacità di manipolare la materia che si confà alla mia pittura. Cioè impasti grassi poi grattati, poi rimessi. E poi Caravaggio è sempre stato un mio grande amore per il taglio di luce che dà drammaticità al contesto rappresentato, tra l’altro spesso in interni. Ho scomodato grandi artisti ma è chiaro che si guarda sempre al meglio.

Nonostante esperienze di vita in giro per il mondo ed un evidente prestigio internazionale sei tornato a vivere e lavorare a Firenze

Anzitutto ci fu un motivo molto pratico. Non vengo da una famiglia agiata ed avevo bisogno anche di un lavoro. Feci domanda d’insegnamento ed iniziai a lavorare all’Istituto d’Arte di Porta Romana mentre allo stesso tempo portavo avanti la mia attività pittorica. Adesso non insegnò più da tempo ma Firenze mi ha dato una mano. È una città che non avrà dinamismo nel mercato dell’arte ma si sta bene. Firenze è una città che ti dà tempo per fare le cose e per farle bene.

Che idea hai della scena artistica fiorentina: artisti, gallerie, istituzioni

Tranne un paio di amici gli artisti non li frequento. Le istituzioni mi pare che abbiano lavorato bene. È inutile negarlo, Il Sindaco Nardella ed il direttore del Museo 900 ad esempio hanno creato un connubio che ha portato a Firenze artisti internazionali. Palazzo Strozzi ha fatto e sta facendo grandi mostre. Ci sono anche ottime gallerie. Sono una manciata ma fanno fiere internazionali.

C’è una tua opera alla quale sei particolarmente affezionato?

Si, nasce da una fotografia che ho scattato molto tempo fa a Parigi, alla Libreria Shakespeare & Co, quella fondata un secolo fa da Sylvia Beach, luogo d’incontro per scrittori come Ernest Hemingway, James Joyce ed Ezra Pound. In quel quadro ho dipinto una poltrona arancione messa in un angolo e poi tutti i libri appoggiati.

Accetti lavori su commissione? Quale è la richiesta più singolare che hai ricevuto?

No, oggi non lavoro su commissione. Ricordo due richieste che alla fine ho accettato, anche perché ero agli inizi, non avevo una galleria alle spalle ed avevo bisogno di soldi. Un petroliere di Bologna mi chiese un dipinto con un paesaggio molto complesso da rappresentare che alla fine riuscii a realizzare. Poi ci fu la richiesta di un broker che voleva un dipinto che rappresentasse la sua sala contrattazioni. Fu il mio primo dipinto sul tema degli stock-exchange. In un certo senso mi ha portato fortuna.

Ho sentito dire che sei appassionato di boxe. Vedremo mai il dipinto di un ring o di una palestra?

Ho fatto il karateka per poi avvicinarmi alla boxe in una palestra di quartiere, tutto qua. Boxare era ed è un modo abbastanza intrigante per fare movimento e per scaricare tensioni dopo aver passato tutta la giornata in piedi a dipingere davanti ad un cavalletto. Del resto, i miei quadri sono di grandi dimensioni e dipingere diventa anche una fatica fisica, un momento in cui assumi posture sbagliate. Non credo che realizzerò dipinti su questo tema ma non si può mai dire cosa riservi il futuro. Chissà, magari dei grandi ritratti. Però non credo.

Progetti futuri?

In questo momento non ho particolari progetti, diciamo che navigo a vista. Il prossimo 5 dicembre ad esempio una galleria di Pietrasanta porta alcuni miei dipinti ad Art Miami.

La chiacchierata è finita e Massimo Giannoni si avvia in bicicletta verso il suo studio e le sue tele di lino bianco.

Per lui, in un certo senso, per praticare la boxe non è indispensabile tornare in palestra.

La sua è una pittura fisica di grande forza persuasiva, che in un certo senso tratta la tela come sul ring si fa con l’altro pugile.

Al posto dei guantoni c’è la spatola con i grumi di colore.

Due passi avanti per il contatto con la tela, prima di diritto e poi di sbieco, tre passi indietro a raccogliere altri grumi, ancora spatola su e spatola di lato, la tela si riempie, i colori si sfaldano, due passi di lato per vedere l’effetto della luce sugli strati pastosi.

Poi ancora avanti ed ancora indietro fino alla fine, finché l’opera non trova compimento ed i paesaggi giannoniani diventano realtà.

Marco Burchi
© Riproduzione riservata


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